30/04/07

PARCO

l'appuntamento mi viene dato di fronte a starbucks.
io lo giro starbucks, davanti e didietro.
in vetrina,di fronte, è pieno di giovani in divisa che urlano.
striscioni e cassette ,urlano che forse desiderano dei soldi.
le ragazze cercano di fermare persone per strada.
il performer mi ha dato appuntamento per le due.
cerco l'entrata di starbucks, probabilmente starbucks non ha entrate.
quando lo vedo - al performer - lo fermo toccandolo con una mano - gentilmente.
indossa - come aveva detto - la maglia giallo oro del brasile.
ci salutiamo e mentre ci incamminiamo ci diciamo cose che forse entrambi non capiamo.
ma sorridiamo.
siamo in fila , di già, e da ore.
io scelgo un frappascimmappuscino.
cerco di far bene lo spelling, poi sono costretto ad indicarlo al performer.
lui fa tutto per me,mi accudisce.
siamo seduti con il vassoio, e mentre parliamo io sbaglio.
faccio per prendere la cosa ordinata da lui e mi accorgo che la mia ancora non è arrivata.
gli spiego che sono giorni che continuo a fare le cose sbagliate e che qua mi sembra sempre di essere sull'orlo dell'errore.
ogni cosa non so se sia quella giusta, e ogni mio gesto potrebbe essere irreparabile.
gli dico anche che sto riflettendo su una soluzione drastica, quella di rimanere immobile e di respirare soltanto.
potrebbe essere una soluzione, mi dice lui seriamente.
guardiamo fuori dalla vetrina e parliamo per ore di quelle cose che camminano sul marciapiede.
mi chiede curioso di quello e quell'altro, e io cerco di spiegargli che sono ancora in uno stato confusionario, che per strada continuo a girarmi e rigirarmi ,perchè ancora non mi sono abituato a vedere quello che i miei occhi vedono.
"tu, performer, gli faccio, sembri una persona normale."
lui mi guarda e cerca di dire qualcosa, fa alcune smofie con la bocca e poi fa segno di aspettare, si scusa due volte e tira fuori dalla sua borsa un vocabolario a mano e non elettronico.
sfoglia mentre io sto con gli occhi sulla strada e fisso i ragazzi che si inchinano e cercano di farsi afferrare i volantini.
nessuno li afferra. tutti vanno avanti.
i ragazzi continuano ad inchinarsi per ore.
"ah...produce.." fa il performer.
io lo guardo strano.
lui ripete "produce"
io io dico "produceR?" lui annuisce.
allora ho sbagliato.
vuole essere chiamato producer.
lo accontento.
da ora in avanti lo chiamerò produceR.
parliamo per ore, che il cielo cambia e la luce si sposta.
anche i clienti cambiano; di starbucks.
discutiamo degli hikikomori fino a non sapere più cose dire, poi lui dice che adora gli otaku (ma lui non lo è,è chiaro).
quando parliamo ogni tanto si blocca ,si scusa, e cerca qualche parola sul vocabolario.
poi me le mostra, per essere sicuro che siamo sullo stesso mare di parole.
una volta mette il dito su "perspective" un altro su "relationship".
dopo il dito sta su "representative".
si va avanti così.

ora siamo fuori. per strada. siamo andati a recuperare la sua bicicletta.
è in fila vicino a tante altre biciclette, tutte uguali.
su ogni bicicletta c'è un foglietto di carta.
lo indica e mi fa "caution" e io continuo a guardarlo.
"caution" mi fa. e poi insiste "cautioncautioncautioncautioncautioncautioncautioncaution"
io capisco.
e gli chiedo "money?" lui mi fa "no".
"quindi ti avvertono solamente" .
"si ,ti dicono che non hai fatto una cosa buona"
parcheggiare lì ,insomma, non è una cosa buona.

nella giornata facciamo moltre altre cose.
siamo in un grande negozio di manga.
siamo in un magazzino di cose di seconda mano.
siamo vicino al capolinea del tram.
siamo sotto la torre della tv.
siamo in un bar ricavato tra due cubi di cemento, tutto stretto e raccolto.
siamo in molti posti ,insomma, io e il producer.


quando torno a casa rallento il passo e fisso la piccola montagnola di neve ghiacciata e nera che se ne sta di fronte a casa mia.
mi fissa ogni volta che torno. e non se ne va.

26/04/07

linden

la prima cosa che vedo - come un imprinting che ogni mattina si ripete - è il viso del secondo interprete deformato dal mio sonno.
gli chiedo - come hai fatto ad entrare? -
- andiamo - mi risponde lui.
- dove - gli chiedo?
- a fare delle cose, no? - lui senza neanche guardarmi.
io ancora sono vestito da notte.
mi spoglio e mi rivesto che non ho tempo di fare nulla.
il secondo interprete è già sulla porta.
esco dalla stanza ancora tutto slacciato - il cervello, soprattutto - .
il secondo interprete è scmparso. lo cerco. è già sulla soglia di fronte alla scarpiera, che mi aspetta.
- aspetta un attimo - gli dico.
appena finisco lui apre la porta ed esce.
non mi vuole aspettare ,si vede.

- è proprio una bella giornata - mi fa lui per strada.
si è una bella giornata, ma io vorrei evitare di parlare, almeno per un altro pò.
camminiamo per la strada.
l'interprete mi sta portando da qualche parte ma io non ho ancora capito dove, anche se lui continua a ripetere che ci si deve sbrigare perchè altrimenti si fa tardi.
l'interprete parla e dice delle cose.
io annuisco e rispondo.
l'interprete fa altre domande e io ,sempre ragionando prima, rispondo.
dico la mia e lui fa domande.
poi sto per dire la mia, e lui fa altre domande.
io rispondo.
così per venti minuti, tra le strade e il traffico.
mi dice che la giornata è lunga.
io annuisco senza rispondere.
- questa è una scuola - mi fa.
- a casa mia le scuole sono sporche, qui molto pulite -.
- eh già - è quello che rispondo.
sono perso negli uffici, oggi.
impiegati parlano e clienti ascoltano e poi chiedono.
noi chiediamo (l'interprete chiede per me) e poi ci rispondono.

neanche chiedo spiegazioni all'interprete, anzi, dopo un pò neanche scrivo più, è più facile se l'interprete fa tutto per me, mia estensione, mio riflesso parlante.

dopo ore di silenzio (ma l'interprete intanto parlava con gli altri, ma non con me)
una frase:
- alle 5 c'è l'incontro. -
-che incontro? - finalmente io parlo.
- quello di benvenuto, per i nuovi arrivati -
cado dal cielo e mi schianto per terra.
forse da qualche parte mi era stato detto.
forse qualcuno, qualche giorno fa, mi aveva avvertito della cosa, dell'evento, insomma dell'incontro.
non ci voglio andare. dico io.
ci devi andare, dice l'interprete.
io NON ci voglio andare ,ripeto con aria che potrebbe anche sembrare cattiva.
tu ci devi andare. risponde senza modificare espressioni, l'interprete.

poi ci pensa e cambia: - se non ti va, puoi anche non andarci - e alza le spalle per disprezzarmi.
allora è chiaro, ci devo andare.

ora qui c'è un vuoto.
io non mi ricordo cosa è successo dalle 4 alle 5 ,comunque mi sono ritrovato nel mezzo.
tra le persone.
tutti sorridono.
e ci sono tutti.
quello dell'ufficio internazionale.
quella della cooperativa.
quello che qui fa i discorsi introduttivi e quindi dovrebbe essere uno che sopra di sè non ha nessuno.
c'era anche quell'altro, quello che ricordo di aver visto ,ma non ricordo esattamente dove.
mi salutano. io saluto sorridendo.
mi sono simpatici e sono vestiti bene, penso.
c'è la folla.
tutti devono indossare il loro badge con nome scritto e trascritto.
così tutti si possono avvicinare, abbassare la testa, e tentare di leggere (con un pessimo accento) il tuo nome.
in effetti lo fanno tutti.
c'è un momento in cui nessuno parla.
tutti sono avvinghiati in una catena di sguardi fissi sui badge, tutti che controllano il nome di un altro, tutti che lo sbagliano e che non si rendono conto della schifezza che fanno uscire dalle labbra.
io mi sottopongo, col petto in fuori e il sorriso in viso, e spiego che no, la "l" non c'entra proprio un cazzo (glielo dico, uso proprio le parolcce) che "ru" in realtà da me a casa mia non si dice e che per esempio lì di lettere ce ne vanno due e che fanno più o meno questo suono "...".
mi guardano come avessero visto un morto.
quando mi chiedono se hanno detto bene ,rispondo sempre con "si, stronzo" e sorrido.
così per venti minuti.
alcuni tentano anche timidi approcci di conoscenza reciproca.
mi chiedono che musica ascolto. "tutta" rispondo io.
che film mi piacciono. "la commedia trash italiana" dichiaro.
"interesting?" dicono loro. mi raccolgo per un momento e poi col volto duro e serio: "molto".
iniziano i discorsi mentre camerieri di corsa riempiono e incastrano tavoli, tolgono plastiche protettive e dispongono oggetti da mangiare. bottiglie di acqua di bibite di birre fanno rumore sopra i tavoli, ogni tavolo è dedicato ad un diverso tipo di persone.

io faccio parte di queste persone qua: 留学生 .

tutti si avvicinano ai tavoli, nessuno rispettando le giuste distinzioni.
tutti mentre mangiano cercano anche di parlare.
io non riesco a fare le cose insieme.
ci provo, gli altri sono esigenti e pretendono che io lo faccia.
mentre parlo inizio a bere.

poi succede l'imprevisto, a metà del rinfresco qualcuno sale sul palco per un altro discorso, l'ennesimo.
l'interprete mi dice: "devi andare sul palco".
"cosa" io mentre in bocca ho due pezzi di riso.
"no, non se ne parla".
" sei obbligato" se ne esce l'interprete.
forse l'interprete è il mio nemico, forse è solo un falso aiutante.
"no, non voglio" ripeto.
"come ti pare, puoi anche non andare" e alza le spalle in segno di disprezzo.
allora è chiaro che sono obbligato.

siamo tutti in fila, io già vedo tutto quasi confuso e non so che dire.
parlano ognuno con un accento differente.
a me gli accenti mi si mescolano in testa e mi sembra di essere in malesia.
poi guardo uno accanto a me e gli chiedo se è taiwanese.
no, io sono di qui, mi risponde.
mi scuso.
l'altro accanto a me sembra un misto, ma so che è americano.
non gli chiedo nulla, lui è concentrato a creare la sua frase in lingua aborigena.
mi toccano la spalla. è un essere umano di prima con cui avevo discusso di film hollywoodiani.
"sei cinese tu, vero?" gli chido così a bruciapelo.
"no, coreano".
"ah,e di dove?"
"suul" lui fa.
"ah suul" faccio io.
ma no ho capito.
lo chiedo anche ad un altro ,uno che sta passando "tu di dove cazzo sei?" "di qui, giusto?"
"no, io sono cinese" .
smetto di capirci qualcosa.
mentre sto smettendo di capirci e lentamente si avvicina il mio turno capisco che il coreano diceva "seoul".
cerco di rintracciralo per dirglielo, ma lui non so più dove sia.

tocca all'americano, che io non l'avevo capito ma era prima di me.
l'americano inizia a mettere tutte in fila alcune parole e io credo di capire poco o niente.
sono già sul palco con in mano il microfono e ci tossisco dentro.
mi sembra di essere in un karaoke.
ma non lo sono.
tutti aspettano che io parli.
quando apro bocca io non mi ricordo e non mi sento cosa dico, però loro ridono.
allora insisto e aggiungo "... ... ... ... ..." loro annuiscono e sono contenti.
ringrazio i sardi per avermi permesso di essere qui in questo momento e termino facendo degli auguri generali ".. .. .. .. .. .. "tutti applaudono e io non so più che fare. scendo dal palco dalla parte sbagliata e mi porto via il microfono.

c'è uno che me lo vuole strappare dalle mani ora, io vorrei tenermelo, il microfono.
non so neanche chi sia, quello che mi vuole rubare il microfono, io tiro e strattono troppo forte, cado per terra e mi porto dietro un vassoio di legno pieno di pezzi di riso.
gli dico "pigliati sto microfono che tanto non mi serve più" ma poi mi accorgo che in realtà il microfono gli era rimasto in mano da quando avevo strattonato troppo forte.

mi viene a raccogliere il capo dell'ufficio internazionale, ma lui di internazionale non ha nulla.
non ci capiamo, gli espongo il mio problema che a me questi discorsi dal palco non piacciono, e che in fondo è tutta una sciocchezzuola.
lui mi guarda e mi sorride io gli rispondo con un sorriso.

l'interprete mi ricompare davanti con la sua faccia, come la mattina, e mi dice che certe cose qui non si fanno.
io credo si riferisca a me e di quello che avevo appena finito di fare invece parlava di tutt'altra cosa, che forse stava pensando da ore che doveva assolutamente dirla.

mi riprendo dal disappunto.
di nuovo si torna a mangiare.
c'è uno che si avvicina e mi chiama per nome, forse gliel'ho detto prima, ma non ricordo.
mi chiede che musica mi piace ascoltare. gli rispondo " molto".
e mi chiede anche che film mi interessano. gli dico " tutta" .
lui forse mi guarda strano.
io continuo a rispondergli.
però lui le domande non me le sta facendo.
discutiamo sulle esplosioni nei film americani, di come ci divertono a entrambi.
poi gli dico che a me "fanno schifo" e lui ripete la parola "esplosioni" .
io gli dico "si le esplosioni mi divertono alquanto".

"ora le foto"
qualcuno dietro di me ha appena detto "ora le foto".
è sempre lui, l'interprete che quando vuole si materializza.
"no" sono irremovibile.
a lui basta alzare le spalle e io capisco.

mi avvio sconsolato.
a tutto questo, ragiono, non c'è rimedio.
i fotografi sono due e ordinano ordini.
mi chiedo cosa.
mi sposto in base ai loro gesti e mi posiziono in mezzo a cosi che si muovono e che provengono da tanti posti tipo india,taiwan,corea del sud, qualche provincia della cina, vietnam e molti molti altri.

io mi giro verso uno e gli chiedo: "ma tu sei d'accordo con questa foto?" e lui mi sorride, gli sorrido anche io e gli faccio OK con la mano.
sorrido sempre.
i fotografi si arrampicano su una sediola per avere una posizione di venti centimetri più elevata.
il capo (quello che faceva i discorsi) ci guarda soddisfatto.
noi saremmo si e no 20.
lui è soddisfatto e sorride.
l'interprete m'aveva tradotto un pezzo del suo discorso che più o meno recitava: "siate tutti felici di essere qui come noi lo siamo ora.cercate di sopravvivere in questo paese, perchè qui per gli stranieri la vita non è facile".

i fotografi urlano come dei pazzi e iniziano a scattare. aspettiamo senza battere ciglio. almeno io.
ne fanno tre o forse sette. luci e flash e in fondo dietro i fotografi tutti vestiti con giacca e cravatta ci sorridono.
poi ci dicono che possiamo andare. ci fanno segno.
io faccio per spostarmi ma prendo male una sedia davanti a me, scivolo, mi aggrappo alla manica di un indiano e con l'altra che rotea nell'aria a ricercare l'equilibrio perduto prendo in faccia un cinese.
perdo aderenza anche con l'altro piede.
vengo giù di schianto.
l'indiano viene giù con me e mentre il cinese si piega istintivamente per coprirsi il volto colpito qualcuno impaurito dal mio crollare colpisce il cinese che rotola per terra.
non ci si salva.
chi più chi meno subisce qualcosa.
la vietnamita si spaventa, povera bambina, e mentre cerca di farsi da parte mette il piede oltre il palco, che finisce proprio lì dietro prima della vetrata gigantesca.
finisce contro la vetrata.
l'amica indiana la va ad aiutare.
cinque persone a terra e tutti che ci guardano.
sono stordito e guardo verso l'alto.
sono tutti intorno a me, tutti quelli dei vari uffici che controllano se sono vivo.
sono vivo e sto bene e mentre mi rialzo guardo fuori dal finestrone.
c'è un pò di sole e da una parte un pò di neve ghiacciata.

22/04/07

odori park

sto misurando la lunghezza del corridoio dove mi trovo.
allargo le braccia per controllare la misura della larghezza.
punto il tallone proprio al limitare del corridoio e inzio un duè,un duè, a contare i passi fino in fondo.
faccio rumore sul parquet.
coi calzini.
passo le porte ,tutte uguali tutte alla stessa distanza e passo pure i contatori dell'acqua tutti a vista e tutti alla stessa distanza.
sembra una bahaus dei poveri.
faccio rumore sul parquet.
si apre la porta davanti a me.
un cinese ne esce fuori. io rimango immobile con le braccia spalancate a squadra e cerco di spiegarmi.
- guarda che non è come credi - che poi cosa creda il cinese proprio non lo so.
il cinese mi fissa e mi dice "...".
io allora gli dico " no guarda che ti sbagli" ma non ho proprio capito nulla di quello che ha detto.
allora lui parla nuovamente "..." dice ora.
io lo fisso e gli dico: "stronzo".
ma lui non avverte l'insulto.
devo provare qualcos'altro.
io intanto sto ancora con le mani alzate, forse saranno queste che lo insospettiscono.
le abbasso.
lui rimane immobile e continua a dire "... ... ..."
spero non pensi che sono un terrorista, penso io.
perchè mi ricordo che qui sui mezzi pubblici ti informano che se vedi qualcuno o qualcosa di sospetto devi subito informare le autorità.
ma non so se lui ha pensato la stessa cosa che ho pensato io.
ci fissiamo e adesso sembriamo due idioti.
nessuno dei due fa un movimento, forse per non irritare l'altro.
sembra stiano passando giornate intere.
ho il tempo di ricordarmi il freddo che faceva oggi e ho anche il tempo di confrontare i lineamenti del cinese con quelli dei veri indigeni.
il cinese improvvisamente dice "......." e scompare dentro la porta.
ora mi metto paura.
forse è andato a chiamare qualche amico cinese per farsi aiutare.
i cinesi, mi ricordo, la televisione italiana diceva di farci attenzione,che arrivano con i loro prodotti e rovinano la nostra economia.
ci penso mentro lo sento parlare in una lingua che forse è il cinese.
le pareti sottili fanno trasudare tutte le parole.
io sono rimasto immobile, non ho nessun connazionale da andare a chiamare.
lo ascolto che parla e parla e poi dopo esce di nuovo.
ora sono in due.
cerco di spiegare loro che stavo solo misurando la lunghezza del corridoio.
faccio gesti e segni nell'aria, e loro inseguono i miei gesti con gli occhi a mandorla.
io li guardo guardare.
li osservo muoversi con gli occhi.
sembrano calmarsi.
i miei movimenti, si vede, hanno un effetto calmante.
ora sono in mio potere.
i cinesi non mi fanno più paura, come invece la televisione italiana aveva affermato io dovessi provare.
- cinesi - li chiamo, - sentite un pò - loro, chissà perchè si girano verso di me.
e mi stanno a sentire.
mi ricordo ora che non avevo nulla da dire ai cinesi.
i cinesi mi sorridono.
anche io sorrido loro.
i cinesi mi sono simpatici, sembrano proprio come me.
- non posso - penso. non posso essere amico dei cinesi.
la televisione italiana mi ha detto di essere loro nemico,penso.

sono combattuto tra un sentimento di simpatia e odio.
non riesco a gestirlo.
sono vicino alla stanza 210 e spero, fissando la porta, che da lì ne esca il mio secondo interprete.
perchè io, dovete sapere, ho due interpreti ora.
il primo è partito per un viaggio di aggiornamento di una settimana.
gli verrà montata una versione nuova e poi tornerà qua a farmi da interprete.
dalla stanza non esce nessun interprete.
sono solo col mio sentimento ambivalente e con due cinesi che fanno i muti e non dicono nulla.

io volevo solo misurare il corridoio, penso.
ma devo ricredermi, i cinesi non ti lasciano fare quello che vuoi fare.
il rumore che produciamo (quello del nostro silenzio e dei nostri sguardi che si intrecciano, nonchè lo scalpicciare dei nostri piedi sul parquet) attira l'attenzione degli altri esseri umani dentro il palazzo.
le porte si aprono, in fila una dietro l'altra.
ne escono una marea incontrollabile di cinesi.cinesi ovunque.
- io non sono in cina - urlo.
i cinesi iniziano una cantilena che spacca i timpani.
tra lo scalpicciare dei passi da cinesi lo sbattere delle porte e lo strusciarsi contro uno sull'altro, non capisco cosa si stiano dicendo.
cantilenano a mia insaputa.
ascolto la cantilena.
sembrano ripetere continuamente una frase.
io dico di nuovo, sempre più forte: - io non sono in cina! -
e allora loro ripetono - e capisco che loro non hanno fatto altro che ripetere questo -
- ionosonoincina!ionosonoincina!ionosonoincina!ionosonoincina!ionosonoincina!ionosonoincina!
-
sembrano avere la forza di ripeterlo fino alla morte.
i cinesi non smettono di uscire dalle loro stanze, cerco di farmi strada e di chiudere dietro di loro le porte, per impedire che escano ancora.
ma più ne chiudo, più porte si aprono.
i cinesi mi sono simpatici,ripeto, i cinesi mi sono simpatici, ripeto.
corro a chiudere le porte, ma ormai farmi strada sta diventando troppo difficile.
il corridoio si sta riempiendo di corpi di esseri umani asiatici, li vedo ovunque e tutti mi fissano.
ionosonoincinaionosonoincinaionosonoincina.
li sento ovunque e sono sopra di me,non resisto più e penso che la televisioneitaliana aveva ragione, i cinesi sono una minaccia per l'economia europea.
- siete una minaccia per l'economia europea! - urlo.

apro gli occhi e mi ritrovo a rotolarmi nella neve, li apro ancora meglio e sopra di me c'è la torre della TV che ha acceso le luci colorate ed è bellissima.
sono tutti intorno a me.
tutti cinesi ancora intorno a me, ma questi sono diversi.

anzi no, non sono cinesi, sono giapponesi.
si stanno prendendo cura di me,parlano di me tra di loro e dicono "... ... ..."
io li osservo mentre si muovono, mi sembrano giocattoli, come quelli cha avevo da bambino e che erano "made in taiwan".
sempre occhi a mandorla anche lì, penso.
gli occhi a mandorla, ripeto dentro di me.
sono bianco di neve.

mi sembra di essere a casa.

19/04/07

kinotoya dori

sono giorni che ci passo davanti ma non ho ancora avuto il coraggio di entrare.
osservo da fuori attraverso i grandi vetri che coprono tutto il negozio.
non c'è un punto in ombra o un punto morto dove i miei occhi non possano arrivare.
dentro ci sono sedie e una stanza più in là dove sedersi a parlare con i propri amici di cose di cui si parla tra amici, di qua invece a sinistra il laboratorio dove le torte nascono e nulla è nascosto alla vista.
i lavoratori del laboratorio sono tutto il giorno sotto gli occhi dei passanti, si fanno fissare e non possono mai proprio mai fare quello che vogliono loro.
mascherine e grembiule ,sorriso sotto la mascherina.
sorridono sempre anche i lavoratori del laboratorio.
cerco di rallentare il passo mentre guardo dentro il negozio che vende torte, tranci di torte, pezzi di dolci ,dolcetti ,panne ,cioccolate frutte sopra panne e cioccolate.

li vedo -gli infiniti prodotti del negozio- tutti in mostra in fila e sopra e sotto nel bancone.
vetri insomma, un negozio fatto di vetri.
li scelgo con la mente e decido cosa comprarmi in futuro ,quale indicare al commesso.

entro.oggi entro.
e appena entro, tutti mi fissano.
quattro commessi più il capo-gestisci-commessi.
tutti sottomessi al capo.
lui mi fissa, gli altri mi fissano.
noi ci fissiamo.
mi danno il benvenuto.
- si, ok - penso io.
mi chiedono una cosa che potrebbe essere "cosa vuoi, pezzo di stronzo?" ma detto con inflessione gentile, con modi pacati e movimenti lenti, lentissimi.
ma io non mi lascio fregare.
so che non mi vogliono lì dentro.

ma io ci sto lì dentro.
- pago, gli dico...io vi pago capito?? - ma loro non capiscono e credono che stia ordinando qualcosa.
allora una delle commesse - quella con le orecchie a sventola,accentuate dal suo cappellino aziendale, mi fa segno con la mano così e poi così ,ripete e poi fa ancora così.
un dito indice alzato verso l'alto.

io le dico - ma cazzo,scusa, certo che sono solo ,che cosa credi. non vedi?- le faccio indicando i miei occhi per cercare di farla capire, alla stupida. -

lei,ovviamente ,non capisce.
mi indica ancora il suo dito, anzi col suo dito indica me, anzi non indica nessuno,sta solo lì e indica l'indice, lo punta verso l'alto.
noto con piacere che continuiamo a non comprenderci.
io allora predo l'iniziativa.
punto il dito verso un trancio di torta e le dico che è per me. glielo dico lentamente, cercando le parole chiave che possano attivare il suo piccolo cervello.
non si attiva.
continua come una scimmia a indicare il suo dito alzato, lo muove e lo scuote parlando al riguado di qualcosa che sembra davvero importante.
io le ordino di abbassarlo, quel dito.
lei invece continua.
il capo ci osserva, che non sa se deve intervenire oppure no, poi io lo fulmino con uno sguardo, e allora lui smette, e si mette a fare qualcos'altro, come per esempio decantare le lodi di un trancio di torta di colore giallo con sopra una cosa che sembra un qualche tipo di frutta.
(non c'è nessuno ad ascoltarlo,lui urla al vento tutte le qualità della torta, mentre io e la commessa cerchiamo di recuperare qualche informazione dalle nostre parole mentre lui ci copre le parole con le sue).

io ascolto il capo, ma lei parla a me.
rotea questo cavolo di dito che pare sia tutto il mondo e io cerco di spiegarle che no, non sto capendo assolutamente nulla ma che voglio solamente un trancio di quella torta.
la indico di nuovo, la torta.
allora forse lei capisce.
guarda me,fissa la torta, poi guarda di nuovo me, un attimo di silenzio e poi stavolta alza due dita.
non una ,ma due.
non ci capiamo.
io le dico : "no, una" .
e lei fa "sisisi" e alza due dita.
io le ripeto che no: "sono uno solo, voglio un trancio di torta".
lei non dice nulla, ma ride.
io la fisso, con un volto che universalmente sta per "io ti odio".
lei sembra non capire neanche questo.

allora le ripeto estenuato "ti prego, uno, sono solo uno e voglio un trancio di torta".
"poi me ne vado" le dico.
lei sorride.
io la fisso.
lei sorride.
io la fisso.
lei sorride.
io la fisso.
lei sorride.


sono fuori in strada senza torta.
guardo a terra i miei piedi bagnati di neve.
quando alzo gli occhi inizia un terremoto.

18/04/07

kita gojo teine dori

ero in uno di questi contenitori di rara e moderna felicità.
ho alzato gli occhi stupito di tanta concretezza.
tutti scartabellavano le gambe in su e giù chinando ogni tano gli occhi e poi la testa alla ricerca di qualche cosa da portarsi a casa.
ci sono una cosa come - tanti- inservienti.
li ho visti uno per uno, faccia per faccia mentre scorrevo sopra la scala mobile.
un cartellone sul muro li ritraeva: mezzo busto, sorridenti, capelli improbabili, facce impassibili di inservienti pieni di carica.

quando gli passo accanto neanche li guardo, però tutti mi fanno " BENVENUTOOOO" nella loro lingua.io li ignoro.
poi un altro "BENVENUTOOO", lo passo in fretta.
una volta passato oltre smette.
tocco tutti gli oggetti, tutte le cose, le vorrei comprare tutte.
ho pensato pure di affittarmi un monolocale in più per poterci infilare dentro tutte le cose che comprerò da questo momento in poi.

poi ,ho pensato,tutti quelli che mi vengono a trovare passeranno per il mio secondo monolocale e avranno la possibilità di raccogliere e portarsi a casa un oggetto - soltanto uno però - e io sarà felice perchè avrò un amico in più. (almeno spero).
mentre fantastico parte il jingle.
il jingle si ripete fino alla fine dei tempi, e io mi sono accorto solo ora che è da sempre che c'era,fin da quando avevo messo piede dentro il super-negozio.

il jingle non smette,ma appena finisce - riparte - .
il jingle fa più o meno così: "..."

io lo ascolto e inizio ad impararlo.il jingle. mi piace.
mentre fisso le macchine fotografiche lo canto.
mentre cerco le borse per i computer lo canto.
mentre guardo i cellulari della softbank lo canto.
mentre guardo gli aspirapolvere in un altro piano lo canto.
mentre non rispondo ad un inserviente che mi da il "BENVENUTOOO" lo canto.

lo canterò anche dopo, quando sarò per strada a mangiarmi un dolce che si chiama "..."


sto con la testa chinata,a fissare i tanti oggetti esposti, mi sento la pancia piena.
poi quando alzo la testa noto che tutti gli inservienti hanno iniziato a muovere ritmicamente la testa, dondolandola a sinistra e a destra.
li squadro e seguo le loro evoluzioni ,poi uno intona il jingle (sembra il capo).
e tutti dietro appresso al capo (e al jingle).

io mi guardo intorno e poi con un gesto chiedo ad uno degli inservienti di unirmi a loro.
lui mi guarda con disprezzo e mi fa capire che proprio non se ne parla.

torno a fissare gli oggetti.
ma il jingle di sottofondo, come fosse il rumore di sottofondo del big bang, non smette di torturarmi.
ora non voglio acquistare più nulla.

faccio fatica a trovare di nuovo le scale mobili. ora mi sono perso nel palazzo mentre tutti gli inservienti si sono fatti vicini l'uno all'altro per intonare tutti insieme il jingle aziendale.
esce il capo del capo.
cravatta e camicia, incita i suoi sottoposti a cantare più forte,ad alzare la voce.
lui la alza per primo, e tutti la alzano a seguire.
il palazzo risuona di un unico jingle.
se mi fermo ad ascoltare posso sentire il pavimento che si muove in risonanza.

non trovo più le scale mobili, non so come uscire dal palazzo, accanto a me e per tutto il piano escono continuamente inservienti che si uniscono algi altri e cantano cantano cantano, non so più cosa fare, mi avvicino ad una finestra da cui si vede tutto il cemento disteso in basso che avvolge la città e fisso la neve in fondo.
piccola piccola e bianca bianca.

16/04/07

suigenchi dori

oggi incontro l'interprete.
(per chi conosce questi affari gli incontri con gli interpreti sono sempre faticosi)
ci incontriamo in una stanza con un'unica vista sul nulla di cemento che qua va molto di moda.
osservo il nulla di cemento mentre ci presentiamo.

l'interprete mi dice : -sarò il tuo interprete qua. -
- Bene, molto bene. - gli rispondo io.
mi elenca tutte le cose che faremo in mattinata le quali cose si riassumono in conoscere e sorridere a molte persone.

è una bella stanza in cima al cemento, che da su un nulla di cemento, tutta arredata dentro che sembra grigia (ma un bel grigio,sia chiaro) e tutta confusa di libri e cose che somigliano a libri e altre cose che sono nacoste tra i libri.

io dico all'interprete: - per favore stammi vicino oggi, senza di te oggi morirei.-
Lui agita una mano e sorride come volesse dire "non ti preoccupare, ci penso io a non farti morire oggi."
L'interprete mi piace, di sicuro farà ciò che ha dichiarato.
mi è simpatico.
chiacchieriamo delle cose di cui si chiacchiera in questi momenti, cioè in sostanza parliamo sul nulla.

gli interpreti credo lo facciano spesso -di parlare sul nulla- pensate che fatica è parlare di cose che altri dicono in un'altra lingua che forse solo voi, interpreti, comprendete e di cui ,più o meno ,non ve ne frega nulla.
magari in quel momento in cui fate gli interpreti pensate allo scolapasta che fuso il giorno prima, o magari vi ricordate che in serata dovete portare il cane a tosare, oppure tante altre cose della vostra vita.

mi piace l'interprete che ho io, ma non invidio questi momenti di cui vi ho parlato.
ci sorridiamo entrambi.
siamo gnetili l'uno con l'altro.

poi dopo poco inizia il giro.
l'interprete mi spiega tutte le cose che devo sapere: dove porta questo corridoio, chi è la persona con cui ha appena parlato, cosa si prova quando la neve ti sta alta oltre la testa, come si fa ad amare il cemento ovunque e tante altre cose.
racconta molto l'interprete e a me piacciono molto i suoi racconti.
arriviamo in un ufficio, tutti salutano e si salutano e l'interprete mi indica e poi parla,poi torna ad indicarmi e tutti mi sorridono e io rispondo sorridendo e cerco di farfugliare sillabe storte che significano più o meno questa cosa: fufususumu.
non lo so se loro mi capiscono, ma decido che quello che deve parlare di più deve essere l'interprete.

passiamo ad un altro ufficio, dove tutti si salutano, mi salutano, mi sorridono e poi dopo un pò di parole che finiscono in a in e in o e in tante altre parole fanno espressioni sconsolate, allargano impercettibilmente le braccia e senza capire io capisco che non possono fare ancora nulla per la cosa sconosciuta di cui stava parlando l'interprete.
mi guardo intorno.
poi dopo l'interprete mi spiega cosa si dicevano tutti quanti.
penso che non era una cosa grave.
facciamo corridoi, li percorriamo, scendiamo scale mentre l'interprete mi spiega come sono collegati gli edifici, da quale a quale siamo passati, dove porta quel corridoio che non stiamo prendendo.
altro ufficio.
tutti si salutano, tutti si sorridono,tutti mi salutano, tutti mi sorridono, poi mi si inchinano davanti e io provo a fare un inchino.

mi viene uno schifo.

lì quello che comanda e che sta parlando col mio interprete è la persona che ha toccato e preparato i miei documenti, che poi io da molta distanza ho toccato e ho cercato di decifrare.
penso che qualcosa ci ha unito a me e il capo della segreteria.
mi sento per un attimo amico del capo della segreteria.

l'interprete e il capo della segreteria si parlano per molto, io mi guardo intorno e poi osservo le espressioni del capo della segreteria.
mi piacciono.
anche a lui sembrano piacere. lui è responsabile di tutte quelle persone che non parlano ma al momento lavorano.
le sue espressioni tutte insieme e tradotto sembrano dire : sono orgoglioso di questa segreteria.

ringraziamenti, tanti inchini, poi di nuovo in giro.

all'ufficio delle case affittano case ma si occupano anche di mense, viaggi, abbonamenti.
forse non si chiama proprio ufficio delle case, ma qualcosa che comprende tutte le loro mansioni.

sono gentilissimi.
l'interprete parla e poi mi parla a me.
a volte mi sforzo di intuire, guardo la bocca che si apre e che dice molte cose, alcune parole rimangono sospese anche dopo essere perse nel mezzo di tante altre parole e persistono come le immagini sulla retina.
e allora traduco con quella parola tutto un discorso.
chissà se è giusto.

vedo case e poi altre case.
mentre ascolto e annuisco senza aver capito (annuisco preventivamente,poi l'inteprete mi riparla anche a me) penso che mi piacerebbe avere una bella casa, e mentre penso questo penso anche che tutti parlano e si dicono cose e io mi sento un poco solo quando succede così.
perchè vorrei capire anche io.

e sono al centro dei loro discorsi, ma mi sento lo stesso fuori, da un'altra parte.
mentre loro parlano di me e delle mie cose io guardo per un pò fuori dalla finestra.
vedo cumuli sfatti di neve sporca, ghiacciati e un pò sciolti in punti irregolari.
penso a quello che mi ha detto l'interprete, che la neve ogni anno ti arriva sopra la testa, e vorrei sapere cosa si prova quando la neve ti arriva sopra la testa, che sembra di tornare bambino quando penso che tanti operai scavano trincee per permettere di entrare negli edifici, e mi ricordo quando io volevo scavare finte trincee tra i mobili di casa mia e il divano diventava un cunicolo un tunnel con un solo spiraglio in fondo.

torno ad asocltarli.
parlano ancora di cose che non capisco.
penso che è da stupidi non sapere la lingua che parlano.
forse anch'io voglio diventare un interprete.

il mio interprete si alza, mi fa segno che è ora di andare a vedere le case, una serie di case con caratteristiche diverse e prezzi diversi.
ci segue anche la signora addetta all'affito delle case.
andremo con la sua automobile fino alle case.
usciamo nella neve.
la calpestiamo fino a che arriviamo all'auto.

15/04/07

higashi sapporo

ho fame.
entro in un negozio che prepare le cose e le vende per farle mangiare alle persone.
mi siedo su una sedia del bancone lungo, che gira intorno al proprietario,che termina vicino ad un frigorifero pieno di birre birre birre.
sono l'unico cliente.
il proprietario mi nota subito.
si avvicina e mi ringrazia nella sua lingua.
io lo ignoro, prendo il menù plasticato e glielo agito vicino alla faccia indicando col dito medio una foto: questo,questo.
quello fa un leggero inchino e mi ringrazia.
io lo ignoro.
guardo la brocca dell'acqua, la prendo e mi verso un bicchiere d'acqua.
l'acqua è gelata, come quasi dappertutto.
il ghiaccio rimane nella brocca.
il proprietario fa cose con la sua cucina.
la cucina è proprio davanti a me ,ma un pò sotto il bancone.

lui muove oggetti: un coperchio gigante di una pentola gigante, un mestolo grande ma non gigante, un rubinetto, un contenitore con dentro le cose da cucinare, lo sportello di una specie di armadio.

prepara tutto in cinque minuti.
mi serve e mi ringrazia.
io lo ignoro.
è tutto bollente.
soffio,tiro,mangio a pezzetti piccoli e con il cucchiaio che mi ha dato prendo su un pò di brodo e con le bacchette ci infilo dentro la pasta.
qui dove sono io fanno il miso con gli udon e con i soba.

lui invece non mi osserva e invece giocherella con un telecomando che gestisce chissà quale oggetto, mentre diffuso per l'ambiente un disco di una qualche ragazzina famosa che canta canzoni orecchiabili simili a tutto quelle che ho sentito a casa mia, suona.
mi viene in mente tiziano ferro.

finisco la scodella con fatica per colpa del brodo caldo, poi attiro l'attenzione del tizio e lui si precipita, mi guarda, io gli faccio notare che -guarda un pò- ho finito di mangiare, e lui mi ringrazia e prende e porta via il piatto.io lo ignoro.

gli ordino un'altra cosa, nel momento in cui si era rimesso a giocare col telecomando.
me lo prepara in altri cinque minuti producendo una serie di rumori di oggetti metallici.
ne produce diversi.
io lo osservo.

mi serve e mi ringrazia.
io mi mangio le cose che mi ha preparato bagnandole preventivamente nella salsa che ho versato nel piatto.

lo fisso e gli dico: - oh! - lui si gira e mi ringrazia, sempre nella sua lingua.io lo ignoro.

io inizio a parlare nella mia fissadolo, lui rimane come imbambolato, come gli si fossero rotti dentro una serie di ingranaggi.
sta lì, ingovernabile.
continuo a mangiare i miei cosi nel piatto, senza più guardarlo.
quando finisco lui mi vede, e ripreso coraggio mi ringrazia.lo ignoro.
io non ce la faccio più, gli chiedo il conto nella sua lingua, però glielo chiedo con la faccia come se lo stessi insultando, lui mi ringrazia e mi fa la somma all'istante (anch'io l'avevo già fatta)
io tiro fuori il portafoglio, i soldi dal portafoglio, glieli metto sulla mano e lui calcola il resto al volo (come se fosse complicato) e fa scattare monete dalla cassa.
mi porge il resto e mi ringrazia.lo ignoro.
io a quel punto non resisto, lo mando a quel paese nella mia lingua ed esco fuori nella neve.

14/04/07

nango dori

c'è la neve.
decido di uscire nel freddo.
mi dirigo in un convenient store che ho fame.
compro tre onigiri, due col tonno e uno con le prugne.Non capisco perchè quello con le prugne, a me fa schifo l'onigiri con le prugne.
la prima volta che lo mangiai mi fece pensare alla solitudine, la seconda pensai alla morte.
esco con in mano tre cosi.
la neve ora viene di traverso e cade giù veloce che sembra stia correndo dietro a qualcuno.
nel buio per strada mangio il primo onigiri.
non mi fa venire in mente nulla.
il secondo lo mangio fermo, in piedi in mezzo alla neve che crolla a terra sporcando di bianco il cemento tutt'intorno.
mangio il coso al tonno fissando l'insegna di un distributore di benzina.
ci sono cinque ristoranti in duecento metri di strada, un karaoke,un distributore di benzina ( quello fissato mentre mangiavo il secondo coso), un negozio che sistema le unghie (cioè le mette a lucido, dà loro una forma e anche un colore) e poi una serie di altre insegne illuminate e di negozi che vendono cose varie e diverse fra loro.

ora ho l'ultimo onigiri in mano, e mi fa schifo. non so perchè l'ho comprato.
lo fisso con disprezzo e poi sai che faccio? - Lo getto nel primo cassonetto che trovo.-
così, tutto intero, con carta alga plastica.

faccio per andarmene da dove sono venuto, ma poi sento qualcosa che mi trattiene.
mi volto e sono ancora nella neve, mentre scende inseguendo qualcosa.

mi volto - dicevo- e quando mi sono voltato fisso il cassonetto, un contenitore di rifiuti che non parla e non si muove.

lo fisso ancora, ma lui continua a star fermo.
ma è in basso ai piedi del contenitore di rifiuti che viene attratta la mia attenzione.
c'è lì l'onigiri alla prugna che mi guarda e mi fa capire che mi odia.
poi parla e dice - Ti odio! -.
in realtà sono stato io ad odiarlo per primo.
Glielo faccio presente.

lui a questo punto mi fissa come se stesse per piangere e mi chiede - Perchè mi odi? cosa ti ho fatto? -
cerca di intenerirmi lo schifo, ma in realtà mi fa solo pena.
gli dico di lasciarmi in pace, di andare per la sua strada che io volevo andare per la mia.
ma lui sta lì fermo e non si muove.
- Vattene! - gli urlo. Alcuni passanti si girano e vedo che sono immersi nella neve che cade.

la situazione non mi piace. mi fa sentire solo.
lo espongo all'onigiri, lui dice che razionalizzo troppo. io non capisco cosa voglia dire.
gli dico anche questo.
lui risponde che sarebbe meglio continuare a parlare dentro il convenient store, si sta più caldi e c'è più luce e poi lì dentro sono tutti gentili.
in effetti la neve insiste, anzi insiste più di prima.
ora si comincia a posare su di me e sull'onigiri.
la neve ci sta coprendo.
Lentamente.

ma io non voglio parlare con lui,io l'odio.
non lo sopporto.
- Non ti sopporto! Mi fai schifo! - urlo tutto quello che ho.
un ragazzo in bicicletta si spaventa. mi aveva superato snza accorgersi di me e quando mi sente gira la testa di scatto e rischia di finire morto sotto un taxi che gli sbuca da sinistra.

- Mi fai pena, capito ? non ti tollero, lo sai? Tu mi fasi schifo , Ti odio! - gli dico. L'avrò ripetuto chissà quante volte.
aspetto una sua reazione. immobile.

poi da lontano in mezzo alla neve che si alza fa: - mhmhmhm...ah...-

Allora non ci vedo più. MH?AH? che risposta sarebbe. corro verso di lui pestando la neve liscia di fresco e gli mollo una pedata in testa. Lo spiaccico. L'ho spiaccicato. Tra la neve.

e io allora me ne vado mezzo coperto di bianco che fra poco non mi si vede più.